Benvenuti alla seconda puntata di “recensioni brutte“, la rubrica di recensioni fatte male da me su libri bellissimi e su cui voi incappate involontariamente quando il vostro gatto, incespicando sulla tastiera del vostro computer batte tasti a caso.
Oggi, e barando un po’, ho voluto recuperare questa vecchissima recensione, su un libro che ho letto molto tempo fa e a cui la mia indole di ex skater e attuale snowboarder mi fa sentire particolarmente legato.
Pronti o no, tutti sulla tavola! (No, non quella dove vi siete rimpinzati come tacchini durante le feste… volevo dire… beh, ok, buona lettura)
Ho sempre pensato che gli anni ottanta fossero stati stati l’apice dello skate mondiale negli Stati Uniti. Mi sono sempre sbagliato, in realtà.
Del resto basterebbe pensarci per un secondo, e sarebbe presto spiegato: alla fine degli anni sessanta, infatti, i primi pionieri di questa passione (NO, mi rifiuto di chiamarlo sport, perché non è uno sport) a causa delle scarse mareggiate, lasciavano le tavole da surf per provare quelle a rotelle.
Nei vent’anni successivi, come si legge in questo libro (che sì, in quanto uomo di tavola mi ha preso in ogni sua pagina) lo skate ssarebbe stato sottodimensionato, visto di cattivo occhio ed emarginato, come roba da teppisti e drogati. Dopo queste quattrocentotrenta pagine in fondo, francamente non ne sono nemmeno stupito.
Appunto perché questo non è uno sport, nè, spero, lo sarà mai, è stato visto dalla società perbenista emmerigana come una macchia, una devianza giovanile da isolare, punire e condannare.
Tuttavia, in questo manoscritto stiamo parlando di Tony Hawk , che nonostante le sue fughe dalla polizia e lo stress della sua competitività alla fine è stato fondamentale in questa disciplina, diventanto una leggenda.
Questa quindi, è la storia di uno dei più grandi esponenti dello skate mondiale, il cui nome è diventato sinonimo stesso della parola skate. Lui sta allo skate come i videogiochi stanno alla parola “Playstation”. No Xbox, non nintendo wii o switch. Solo playstation.
E nel mondo di Tony (e lo dico con una discreta cognizione di causa) di fuoriclasse, specialmente quando lui ha iniziato, ce ne erano.
Innumerevoli sarebbero stati i problemi che quegli anni ottanta avrebbero portato allo skater: partire da lì ed attraversare tutta la storia della tavola non sarebbe stato solo difficoltoso. Sarebbe stato un peso da caricarsi come l’ultimo arrivato, il mingherlino, la recluta, che grazie ad un destino difficile ma alla fine giusto, gli avrebbe fatto incontrare le persone per emergere dalla massa dei suoi coetanei diventando, fin dalla sua adolescenza, un campione.
Il suo rapporto con Stacey Peralta, uno dei più grandi produttori di tavole di sempre (e fra gli skater mondiali), gli avrebbe portato una fede incrollabile di cui Tony avrebbe acquisito consapevolezza solo nel tempo successivo alla consacrazione di quello che nasceva come sponsor e finiva come uno dei suoi migliori amici.
Prima di tutto questo però, (ed è quello che trovo veramente evocativo in questo libro) prima di diventare un adolescente foderato di soldi, T. ha sempre creduto nello skateboard.
Perché quello secondo me è il messaggio che dovrebbe passare: prima di tutti quei termini tecnici, che sono un effettivo malus per chi di skate non ci mastica una cippa, quello che dovrebbe ispirare in queste pagine dovrebbe essere il senso di ostinazione, il non darsi mai per vinti. E in questo concetto che mi piace vagare con la mente ed andare oltre. Prima di essere un grande skater, Hawk ha saputo guardare oltre a chi gli diceva che lui non era adatto, a chi lo criticava di avere un padre coinvolto alla National Skateboard Association che, si diceva, lo favorisse. Prima di ogni altra cosa Hawk ha saputo superare i propri limiti, credendo in una passione che assieme ad altri coraggiosi ha saputo trasformare una filosofia malvista ed emarginata in uno stile di vita oggi apprezzato e stimato dal mondo.
Alla fine tutto è servito, dall’essere isolato a scuola a saper smettere quando i suoi limiti gli impedivano di sopportare la pressione, sapendo poi rialzarsi e ricominciare, puntando a diventare l’unica cosa che poteva essere. Non uno skater, ma LO SKATER.
E ripetiamolo per la millemillesima volta per gli ultimi abbonati a queste pagine; in questo si racchiude lo skate. Rialzarsi, sempre e comunque. Quasi mi ci commuovo a pensarci, pensando a tutto quello che mi sarei perso se non ci avessi mai provato a salire, su quella tavola.
Voto: 4,5/5
Fossero tutti come me, questo libro di meriterebbe un 6 su 5. Il problema è che Salani Editore (quelli di Harry Potter) ha puntato con coraggio su questo testo, ben scritto e sufficientemente romanzato e che fin dall’origine integra termini tecnici (i nomi dei tricks su tutti) che distolgono l’attenzione del mainstream dei lettori, rendendone a tratti difficile la comprensione.
Per molti ma non per tutti, insomma. Ma per capire cosa è quel 900 c’è sempre youtube, cari normali, e se volete addentrarvi in uno dei più grandi momenti dell’umanità, Il rischio è che possa piacervi almeno la metà di quanto è piaciuto a me 🙂
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